Stop ai pettegolezzi in ufficio che violano la vita privata e sessuale dei colleghi
Con una decisione articolata la Cassazione interviene significativamente sul tema della privacy in ufficio stabilendo limiti rilevanti alla diffusione di notizie sui rapporti personali tra colleghi.
Infatti, con la sentenza 2 dicembre 2011, n. 44940 la quinta sezione penale afferma che la persona che per rancore diffonde tali tipi di notizie commette il reato di diffamazione, violando, inoltre, la privacy dell’interessato.
Nel caso di specie un cliente di una banca, interessato ad un’impiegata, dopo aver ricevuto un sms anonimo che lo avvertiva del fatto che la donna usciva con un suo collega sposato, assume un investigatore privato per accertare l’identità dell’autore del messaggio.
Il cliente e la titolare dell’agenzia vengono condannati dal Tribunale di Torino per i reati di acquisizione e raccolta illecita di dati sensibili nonché acquisizione e comunicazione di dati personali relativi alla vita privata e alla sfera sessuale dell’impiegata, cagionandole nocumento; inoltre, il solo cliente veniva condannato anche per diffamazione aggravata.
La Corte di appello di Torino conferma la sentenza di primo grado, provocando il ricorso per cassazione dei due imputati.
I giudici di Piazza Cavour respingono tutte le censure (dieci) dei ricorrenti, confermando nella sostanza quanto stabilito dai giudici di merito.
In particolare, viene respinta la censura relativa alla presunta violazione ad opera del giudice di merito del c.d. principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, in quanto nel caso in esame, pur essendovi un riferimento agli articoli di legge parzialmente errato, le condotte addebitate erano state chiaramente espresse nel capo di imputazione e, pertanto, non vi era stato nessun pregiudizio per i diritti della difesa.
Quanto alla lamentata violazione derivante dalla mancata applicazione della legge più favorevole al reo in caso di successione di leggi nel tempo, gli ermellini ritengono corretto il ragionamento della Corte di appello, respingendo pertanto anche questa censura.
Al riguardo, si deve evidenziare la continuità punitiva tra le fattispecie di cui all’art. 35 della l. 676/1996 e agli artt. 23 e 26 del d.lgs. n. 196/2003 (codice della privacy).
Tutte e due le ipotesi prevedono la presenza del nocumento della parte offesa, ma, mentre il reato di cui al previgente art. 35 della legge 675/1996, lo individuava quale circostanza aggravante, il codice della privacy ha individuato il nocumento quale condizione obiettiva di punibilità.
Pertanto, il giudice di merito ha correttamente attuato il principio in questione, applicando il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge precedente.
Infatti - si legge nella sentenza - l’individuazione della legge più favorevole va compiuta considerando il trattamento sanzionatorio nel suo complesso.
La Corte di Appello ha ritenuto più favorevole quello previsto dalla legge precedente proprio per la qualificazione del «nocumento» come circostanza aggravante, come tale soggetta a giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti, a differenza della condizione obiettiva di punibilità.
I due imputati hanno violato la privacy della persona offesa in quanto hanno esercitato abusivamente controlli sulla stessa, avendole carpito informazioni sulla sua vita privata ed avendo diffuso tali informazioni presso terzi, causando nocumento all’impiegata.
Non si può dimenticare, infatti, che il trattamento dei dati personali, effettuato da un soggetto privato per fini esclusivamente personali è soggetto alle disposizioni della normativa sulla privacy, tanto se i dati siano destinati a una comunicazione sistematica, quanto se siano destinati alla diffusione, essendo, in tal caso, necessario il consenso dell'interessato.
Ciò che non si è verificato nel caso de quo.
Infine, per quanto riguarda il reato di diffamazione la Cassazione ribadisce che la diffusione, all’interno del ristretto ambito lavorativo, della notizia dell’esistenza di una relazione, sentimentale e sessuale, clandestina tra due impiegati può avere natura diffamatoria, specie se uno dei due è sposato, perché, benché la relazione adulterina sia attribuibile solo all’uomo spostato, la riprovazione sociale colpisce solitamente entrambi i partner, e la notizia viene fatta oggetto di malevolo pettegolezzo.
In ogni caso, il fatto che uno dei due abbia voluto mantenere segreta la relazione con il collega, costituisce controprova del fatto che entrambi si sarebbero ritenuti danneggiati (anche sul piano della reputazione) dalla diffusione della notizia, come si è verificato nel caso di specie.
Quanto al preteso sussistere della scriminante del diritto di critica, la Cassazione rileva la completa assenza del requisito di rilevanza sociale delle notizie che il cliente aveva diffusone nell’ambiente lavorativo dell’impiegata.
Da qui la decisione dei giudici di rigettare i ricorsi e condannare i ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali, e, in solido, alla rifusione alla parte civile delle spese sostenute nel giudizio.